Senza leggerlo (due link)

Penso di averlo linkato già altre volte, ma questo articolo di Francesco Pacifico sulla mediocrità lessicale della narrativa italiana contemporanea è un articolostrappato che conservo e ricordo per bene. Lo ricollego a una recensione appena letta, di Paolo Zardi. Interessantissima. Dateci un occhio, e scoprirete perché. (Nonostante sia su un’opera tradotta).

In entrambi i casi: è interessante il metodo, più che l’oggetto.
In entrambi i casi: ecco perché si può parlare di libri senza averli letti, decidere che non valgono la pena senza averli letti, affermare che un libro è ben più che la sua trama.

16 pensieri su “Senza leggerlo (due link)

  1. Mah. Riflessione interessante, a me una volta era venuta una mezza idea di fare un’analisi quantitativa di un testo, ma fortunatamente non ho abbastanza tempo per impegnarmici. Non so se condivido ogni parola dei due interventi, letti un po’ di sfuggita, ma la butto lì: la lingua è sempre più banale anche perché (1) insegnano a scrivere così e l’editor di turno depenna adducendo scuse tipo “nessuno parla così” e (2) in effetti, nessuno parla così. Se la lingua reale è banale, non puoi aspettarti che qualcuno proponga termini come “cachinno” al giorno d’oggi. Oddio… qualcuno lo fa e si prende le critiche da chi, d’improvviso esperto di termini un po’ ricercati (se non antichi), decide che non l’ha usato in modo appropriato.
    E il primo editor è Microsoft Word, con i suoi termini “logori e abusati”. Nel mio caso, dal ’95 (o pochi anni dopo).

    • (ecco, ho risposto più sotto in maniera più ampia!)
      Di editing non so molto, quel che è certo è che, da parte dei lettori, non c’è il gusto della parola. Quando leggo per me è importantissimo assaporare, saggiare, riuscire a palpare il modo di raccontare. E’ evidente che in linea di massima per i lettori non è così, anzi, è esattamente il contrario.
      Ed è altrettanto evidente che per gli scrittori l’esigenza di pensare al modo in cui raccontano non è per forza un’esigenza, spesso è un elemento secondario o addirittura indifferente rispetto alla trama. O alla piatta emozione
      E quando si parla di linguaggio ricercato, molto spesso si confonde la faccenda con stili arcaicheggianti/pomposi/kitsch, che tiran fuori dal cilindro termini desueti e accostamenti improbabili, che, certo, non è un’opzione migliore rispetto alla povertà lessicale…

      • (Ho letto anche sotto.)
        Ecco, è proprio di voce che stiamo parlando. Se lo stile è arcaicheggiante, perlomeno è uno stile (se poi lo è, parto dal presupposto che sia un tizio in grado di scrivere). La voce nasce dallo stile. Lo stile, diceva qualcuno, è dato dall’insieme degli errori dello scrittore. Pure un lettore disattento come me si accorge se chi scrive è atono – plateale l’esempio delle descrizioni con occhi e mani, ci cascano tutti. Me compreso. Il discorso sulle singole parole probabilmente si adatta più a una discussione più ampia sull’evoluzione della lingua italiana, discussione che non sono in grado di portare avanti.
        A me piacciono gli arcaismi, quando non sono pesanti! 🙂

  2. Effettivamente, come accenna Salomon… la lingua è per natura uno strumento che tende a semplificarsi. Quindi, se da un lato non amo che i romanzi si indeboliscano lessicalmente, dall’altro è anche innegabile che è una cosa piuttosto fisiologica.
    E’ una questione più complessa di come appare, secondo me.

    • E’ sicuramente una questione più complessa di come appare. Ma l’analisi numerica del testo, che non può sostituirsi alla lettura, e al giudizio, può suggerire alcune chiavi di lettura che magari possono sfuggire a una lettura veloce. La lingua si semplifica, e questo è inevitabile, ma non è detto che questo corrisponda a un impoverimento: posso scegliere poche parole per sottrazione, eliminando tutto il superfluo, o per disperazione, perché, banalmente, il mio orizzonte linguistico è molto ristretto. Penso a “La strada” di Corman McCarthy: levigato, minimalista, essenziale. La semplicità funziona quando ci si arriva dall’alto, per scelta consapevole…

    • A dire il vero non credo sia una questione di semplificazione. Ma proprio di banalizzazione. Un vocabolario di parole semplici non significa un esiguo vocabolario, inoltre la questione non è, meramente, “quante parole si usano”.
      I testi tendono a essere estramenti concentrati sul soggetto, con poche descrizioni e una forte attenzione a: occhi e mani. Azioni ripetitive, non parole ripetitive: nel momento in cui ripeto ogni pagina la parola occhi, non significa che ho un vocabolario scarso, ma che metà del mio testo dice probabilmente la stessa cosa, che il mio modo di raccontare non ha alcuno slittamento o sorpresa.

      Io amo le narrazioni in cui la parola ha senso, viene scritta in modo pensato. Questo non significa “essere complessa”, anzi!, molte delle mie opere preferite hanno uno stile asciutto, frequenti colloquialismi. Ma non sono banali.
      Paolo Zardi non dà un giudizio, fa un’osservazione, un’analisi matematica senza scampo: in un romanzo di 600 pagine, si usano poche arole, si ha interesse esasperato verso sempre le stesse cose, non c’è spazio per altro che non ruoti intorno a frasi in cui la protagonista o il protagonista sono soggetti, le parti del corpo su cui ci si concentra sono sempre le stesse. E così via. E
      Francesco Pacifico evidenzia, invece, un elemento decisamente più demoralizzante: nella narrativa italiana contemporanea molto frequentemente non è possibile evidenziare differenza tra le voci narranti di molti autori. Che tristezza! Lo dico spesso, qui, ciò che non mi piace è quando la voce che racconta non ha alcun segno riconoscibile.

      • Io però mi riferivo particolarmente all’altro articolo, non a quello di Paolo Zardi. Perché per me sono due cose parzialmente diverse. Nel senso che un conto è usare parole più ‘semplici’, e un conto è ripeterle all’infinito.

        Quello di Pacifico… effettivametne io la vedevo in un altro modo.
        Però hai ragione, sulla possibilità di distinguere le differenti voci, questo sì. Io mi ero legato a un discorso meramente linguistico.

      • sì, in linea di massima sono due cose 😀 diciamo che le ricollego per il metodo – nessuno dei due ha letto i romanzi, uno ha usato un programma, l’altro analizzato un campione da ognuno – e un po’ per la sensazione di generale banalità 🙂

  3. Grazie per la segnalazione del primo articolo, che non conoscevo e ho trovato molto interessante. Conferma in modo empirico una sensazione che provo a pelle da parecchio tempo.
    Spesso la sensazione che ho leggendo romanzi italiani di autori viventi (lascerei le traduzioni di autori stranieri a parte, perché ci sono altre variabili in gioco in quel caso), è che il lessico da un autore all’altro sia quasi intercambiabile e peggio…indistinguibile, salvo poche isole felici (Busi è il primo esempio che mi viene in mente).

    • E infatti Busi la scorsa settimana diceva che gli italiani vogliono libri per analfabeti, che il premio Strega cerca romanzi con 300 parole 😉

      Adorai quell’articolo – comparso su Orwell, era una fantastica fonte di stimoli e critiche – proprio perché ha anche per me dato voce a una sensazione che ho da anni. Chiudere un libro italiano lascia troppo spesso una sensazione insipida, piana.

  4. Grazie per questi due articoli! Il primo davvero illuminante, non è altro che la amara conferma di ciò che si respira, purtroppo. E per il secondo articolo, esilarante quanto azzeccato. Due chicche! Grazie 😀

  5. Perfettamente d’accordo sul punto che la qualità di un buon libro debba passare per la pertinenza con cui è usata la lingua nel contesto che si sta descrivendo. Credo anche io che questo non significhi necessariamente usare parole difficili o non comuni, ma usare la parola che dia “sapore” e “odore” a quello che si vuole descrivere. Se il metodo di Pacifico della lettura di pochi estratti de libro mi sembra un buon approccio, ma circoscrivibile alla sola analisi stilistica (e sappiamo bene che un buon libro non è tale solo se ha uno stile buono), l’analisi statistica di Zardi mi lascia mooolto perplesso. Parlo da tecnico. Dare un significato ai numeri è già di per se difficile in contesti tecnico-scientifici, ma darli nell’arte mi sembra ardito, se non impossibile.
    La mercificazione del libro mi sembra evidente e quasi ovvia. Ma credo non ci sia scampo. Per leggere un buon libro bisogna o rischiare in prima persona (leggendolo), e oggi è come giocare un biglietto del superenalotto, o provare a fare tesoro dei consigli di chi lo ha fatto e ci sembra si avvicini al nostro modo di gustare la letteratura, come con paginestrappate.
    Ottima provocazione comunque.

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